Reddito di cittadinanza e politiche attive del lavoro. Articolo di Marco Chillemi
La “novità” di questi anni, e se ne parla molto in questi giorni, è lo sforzo di combinare il reddito di cittadinanza, molto voluto dal movimento cinque stelle, le politiche attive introdotte in questi anni nella legislazione e rafforzate nella legge 150/2015 e l’attività dei Centri per l’Impiego.
Operando ormai da quasi trenta anni nei servizi pubblici per l’impiego sono abituato a imbattermi con leggi e informazioni che danno modo di pensare, almeno a noi esperti di settore, che gli autori di queste leggi disconoscono l’attuale funzionamento dei Centri per l’Impiego e del Mercato del Lavoro italiano.
Le indicazioni mediatiche del futuro ruolo dei centri per l’Impiego rispetto al reddito di cittadinanza ne danno l’ennesima conferma.
Già il 150/2015, legge teoricamente bellissima, pecca di questo difetto. In effetti, ad oggi, la legge 150/2015 non è pienamente applicata perché non si è provveduto in precedenza a rafforzare i Centri per l’Impiego con nuovo personale qualificato, di qualificare quello già esistente e di predisporre queste strutture con locali adeguati e strumentazioni, tecnologie informatiche evolute; inoltre, non si è provveduto a spostare somme consistenti dalle politiche passive a quelle attive.
Solo per applicare il 150/2015, agli attuali (circa) 8000 dipendenti dei Centri per l’Impiego (stime parlano di 7500), occorrerebbero almeno altri 8000 colleghi per avvicinarsi (rimanendo comunque distanti) al n° d’impiegati utilizzati nei servizi per l’impiego pubblici in altri paesi europei (uno studio di Adapt parla della necessità di almeno 50.000 dipendenti). Come rispondevo ad un altro post su linkedin: ci sarà una ragione del perchè in altri stati europei s’investe nei servizi pubblici per l’impiego il triplo di quello che si fa in Italia! C’è chi invece, nella politica, vorrebbe andare addirittura dalla parte opposta: eliminare i servizi pubblici per l’impiego! (questo creerebbe a mio avviso un vuoto nel mercato del lavoro facendoci tornare all’era del caporalato puro, alla non tutela delle fasce più deboli … al 1800!)
Una delle discrepanze paventate nella futura legge sul reddito di cittadinanza è che la persona (che andrà a prendere un compenso pari ad un lavoratore dipendente -nel lazio il rimborso minimo per i tirocini è di 800,00 euro), dovrà svolgere lavori socialmente utili in “attesa” che il centro per l’impiego gli “trova” lavoro!
Dove è la politica attiva? Dove è l’attivazione della persona? In che modo si può renderla autonoma nelle scelte future? E se anche volessimo attuare così come viene enunciato, per quale motivo le aziende dovrebbero rivolgersi ai Centri per l’Impiego per assumere persone presumibilmente inoccupabili? (la maggior parte degli attuali percettori REI, indicativamente i futuri percettori del reddito di cittadinanza, sono poco qualificati e hanno un tasso di occupabilità molto basso). C’è sicuramente qualcosa che sfugge al legislatore e che renderà la legge inefficace … comunque, si può sempre trovare il capro espiatorio nell’inefficienza dei Centri per l’Impiego (un politico cade sempre in piedi!).
Analizziamo cosa vuol dire “trovare lavoro” a una persona. Quello di “trovare lavoro” a una persona è un’attività altamente qualificata svolta dagli Head hunter per personale molto qualificato. Quello che si fa normalmente, nell’attuale mercato del lavoro, è “intermediazione”: pubblico una domanda di lavoro per conto di un’azienda (oppure informo i miei iscritti che è stata pubblicata o esiste una domanda di lavoro); chi vuole, tra le persone che cercano lavoro, risponde all’annuncio: si candida. Ma se è l’azienda a domandare e se è la persona a rispondere all’annuncio, possiamo dire che Agenzie di somministrazione & company, o i Centri per l’Impiego, hanno trovato lavoro a quella persona? No! È quella persona che grazie alla sua attività di ricerca ha individuato una “domanda” di lavoro a lui consona.
Ma quanto s’intermedia in Italia? Beh, meno del 20% delle opportunità lavorative; un 20% litigato da tutti gli intermediari: società di selezione, d’intermediazione, di somministrazione, università, scuole, servizi internet, carta stampata, associazioni datoriali, sindacati, centri per l’impiego ed altri che si sono aggiunti nella lunga lista, legislazione dopo legislazione, con la speranza che aumentando gli intermediari aumentasse anche quel misero 20%; questo, da venti anni a questa parte, non è avvenuto!
Il rimanente 80% delle opportunità lavorative è evaso dalla “preventiva o opportuna conoscenza” (in modo diretto o indiretto con l’azienda) della persona da assumere e dalle “banche dati aziendali”.
Uno studio ISFOL del 2014 (attuale INAPP) http://www.isfol.it/primo-piano/studio-isfol-sul-sistema-italiano-dei-servizi-per-limpiego già evidenziava il basso investimento sui servizi per l’impiego e in altri studi, grazie anche all’applicazione delle politiche attive in collaborazione con i servizi per l’impiego privati, i Centri per l’Impiego centrassero più del 30% di intermediazione indiretta http://www.isfol.it/primo-piano/come-si-cerca-lavoro-in-italia-canali-di-intermediazione
Tornando all’attuale REI o il futuro reddito di cittadinanza, se ragionato per l’inclusione sociale, la normativa dovrebbe prevedere una quota di assunzioni obbligatorie, gestite dai Centri per l’impiego, per i percettori ritenuti “occupabili” e in grado di lavorare. Ad esempio già nella legge 223/91 art. 25 si leggeva, per favorire l’inserimento di lavoratori svantaggiati, “… riservare il dodici per cento di tali assunzioni ai lavoratori appartenenti alle categorie di cui …”. A questo punto, i Centri per l’Impiego avrebbero sicuramente delle opportunità da proporre ai percettori REI o Reddito di Cittadinanza! Un calcolo approssimativo ragionato sui dati excelsior del 2017, sulle 4.092.500 previste (non sul totale dei dipendenti), il 12% sarebbero circa 490.000 nuove posizioni l’anno da dedicare alla “quota sociale”. Questo consentirebbe di mettere in crisi da subito i “furbetti” che prenderebbero il reddito di cittadinanza e magari sono già impegnati in attività di lavoro nero, ma chiaramente, a dare reali opportunità a persone con disagio economico e che hanno difficoltà ad inserirsi nel mercato del lavoro.
Parallelamente, devono essere previste misure per fare impresa, favorire la necessità delle aziende di assumere (aumentare potenzialmente posizioni lavorative: creare lavoro!), misure -attraverso le politiche attive- a favorire il potenziamento delle competenze (orientamento-formazione) e la “comunicazione” tra la domanda e l’offerta di lavoro.
Quando parlo di “comunicazione”, intendo dire che spesso la domanda e l’offerta di lavoro non s’incrociano lasciando paradossalmente centinaia di posizioni lavorative l’anno inevase.
Ed è qui che attraverso le politiche attive può entrare in gioco un ruolo fondamentale dei nuovi centri per l’impiego (rafforzati!) che serviranno come ponte tra i servizi pubblici per l’impiego e quelli privati (in un’azione di collaborazione e non di competizione), e quello di supportare l’onere dell’orientamento come “processo volto a facilitare la conoscenza di sè, del contesto formativo, occupazionale, sociale, culturale ed economico di riferimento, delle strategie messe in atto per relazionarsi ed interagire con tali realtà, al fine di favorire la maturazione e lo sviluppo delle competenze necessarie per poter definire o ridefinire autonomamente obiettivi personali e professionali aderenti al contesto, elaborare o rielaborare un progetto di vita e di sostenere le scelte relative” (ISFOL 2012), che è appunto un processo, constatato dalla mia esperienza professionale, che facilità la “comunicazione” tra persone che cercano lavoro e aziende che cercano professionalità.
Marco Chillemi